I giornali perdono con
Internet ma la pubblicità
sul web è poca e
i navigatori non sono
disposti a pagare
CARTA STAMPATA O CARTA STRACCIA? – I GIORNALI CONTINUANO A PERDERE TERRENO NEI CONFRONTI DELL’ON-LINE MA I SITI INTERNET NON FANNO GOLA AGLI INSERZIONISTI E I LETTORI NON SONO ANCORA DISPOSTI A
PAGARE PER LEGGERE LE NOTIZIE SUL WEB – IL “CITIZEN JOURNALISM” NON PUÒ ESSERE MESSO A SISTEMA E IL GIORNALISMO VERO RICHIEDE INVESTIMENTI E METODO – RIPENSARE STRATEGIE E MODELLI DI MERCATO:
L’INGLESE “GUARDIAN” SI SPARA GLI SCOOP PRIMA SULL’ON-LINE CHE SUL CARTACEO…
di Giuseppe Granieri per “l’Espresso” 13/4/2012
Se i giornali fossero una squadra di baseball”, ha scritto nei giorni scorsi Eric
Alterman, “sarebbero i Mets. Una squadra senza speranze per l’anno a venire”. Alterman, giornalista, blogger e critico dei media, gioca con la retorica e la provocazione. Ma dopo un incipit a
effetto enumera quelle che definisce le “continue deprimenti statistiche” che hanno come protagonista l’informazione su carta stampata.
È un declino che dura da molto: negli Stati Uniti, negli ultimi trent’anni, i ricavi sono stati in calo
costante e anche se i valori vengono aggiornati all’inflazione, risultano dimezzati rispetto al 1984. Ancora, per dare l’idea dello slittamento nel potere, le vendite combinate di tutti i
giornali americani nel 2011 non arrivano ai due terzi del fatturato di Google. È una tendenza, dice Alterman, che non è destinata a invertirsi: “Il peggio deve ancora
arrivare”.
Certo, guardando al presente esistono modi diversi di leggere lo stato di salute dei giornali. Ma ogni nuovo
report continua a suggerire preoccupazione per il futuro. LinkedIn, il popolare social newtork del mondo professionale, ha pubblicato recentemente una serie di dati sulle industrie in crescita
e su quelle in calo, misurando i posti di lavoro persi o guadagnati. Il grafico, anche qui, è allarmante: i giornali sono in assoluto l’industria che negli ultimi quattro anni ha bruciato più
occupazione.
E qualche giorno dopo è stato rilasciato l’importantissimo rapporto sullo stato dell’informazione americana,
uno studio molto strutturato che anno per anno descrive bene il settore. E che contiene rivelazioni interessanti sui comportamenti dei lettori e sul modo in cui gli ambienti sociali (Twitter e
Facebook in particolare) iniziano a lavorare come canali di distribuzione delle notizie. Il dato che davvero descrive il problema, però, è quello sui ricavi: dal digitale i giornali mettono in
cassa solo un dollaro per ogni dieci che ottengono dalla carta.
L’opposizione tra carta e bit, infatti, non è una banale questione di supporto, o di affezione a un’idea. È
prima di tutto un problema industriale: l’adozione delle nuove tecnologie porta a un modello di informazione diverso: man mano che il pubblico dei giornali cambia le sue abitudini di consumo,
il modello tradizionale va in crisi. Non diminuiscono i costi, ma si riducono le tre “gambe” che sostenevano i ricavi: da un lato crolla la diffusione, quindi calano le vendite e gli
abbonamenti, e dall’altro si riduce la raccolta pubblicitaria.
Allo stesso tempo non c’è una compensazione da parte del digitale. Il pubblico non è abituato a pagare
l’informazione on line e sul Web gli inserzionisti hanno migliaia di altre opzioni per collocare la loro pubblicità su siti più vicini al target e al tipo di attenzione cui mirano. Le grandi
news corporation non sono più gli unici giocatori della partita. Nascono e crescono in fretta molte altre realtà, più agili e competitive. E la notizia stessa, che nel mondo della carta era un
bene scarso, diventa persino troppo abbondante: si trova ovunque e con facilità. È difficile darle un prezzo e restare credibili.
Il vero problema, dunque, non è tanto quello di giocare con le congetture e provare a stabilire per quanti
anni ancora avremo giornali e riviste di carta. Piuttosto, si tratta di cercare una risposta a un tema fondamentale per le nostre democrazie: il giornalismo professionale costa ed è centrale
nelle nostre vite. Ma chi – e come – sosterrà il costo del giornalismo man mano che i ricavi della carta continueranno ad essere in declino?
Per una valutazione laica della questione è necessario sgombrare il campo da qualche superstizione. Il
giornalismo diffuso, quello dei blogger o dei “corrispondenti da Twitter”, funziona benissimo in alcuni casi: ad esempio nei Paesi a democrazia limitata (lo abbiamo visto lavorare bene in Iran,
poi durante la primavera araba, oggi in Siria) o quando abbiamo a che fare con insider o fonti dirette.
Ma non è possibile metterlo a sistema, se non come opzione che si limita ad arricchire il nostro mondo
dell’informazione. La copertura delle notizie mondiali richiede investimenti e metodo, caratteristiche che fanno parte dell’industria dei media e del mondo del giornalismo di
professione.
Questi costi vanno collegati a un modello di ricavi che oggi è ancora tutto da inventare. Nelle sale
riunioni dei grandi gruppi si guarda soprattutto in questa prospettiva. Le soluzioni che si stanno sperimentando sono diverse. Il “New York Times” sta facendo i primi bilanci, a un anno dal
lancio del suo paywall, il sistema che obbliga i lettori a pagare le notizie. I dati sono abbastanza confortanti (vicini al mezzo milione di abbonati) ma sono soprattutto dovuti alle opzioni
offerte per i dispositivi mobili.
Il “Guardian”, invece, ha adottato una strategia molto più aggressiva, applicando la logica del digital
first, considerando prioritaria l’edizione digitale rispetto a quella cartacea. È un passo molto importante, perché la crisi della carta è collegata ad una crisi di prodotto e a un modo di
pensare il giornalismo. Non a caso alcuni commentatori cominciano a definire i giornali come “l’industria delle notizie del giorno prima”: il digitale ha cambiato radicalmente le abitudini dei
lettori e l’intero ecosistema dell’informazione.
Il giornalismo deve quindi adeguarsi e pensare a se stesso in modo differente, più collegato alla
contemporaneità. In un ambiente iperconnesso in cui ormai tutti i protagonisti “dichiarano su Twitter” invece di farsi intervistare o di chiamare il giornalista, va modernizzato il ruolo del
“mediatore”, di chi costruisce una comprensione del mondo per i suoi lettori.
Per questo la strategia del “Guardian” è interessante: da vero manipolo di “radicali del digitale” (come li
ha definiti qualcuno), i signori della testata inglese stanno lavorando moltissimo sulla ricerca di forme di informazione moderne. Partendo, non a caso, dall’accettazione della “grammatica
della Rete” che ha caratteristiche diverse da quella della carta.
Al “Guardian”, così, provano a costruire un modello intorno ai propri lettori. La domanda che si pongono,
per guardare al futuro, è quella corretta: “Il tuo giornale ha bisogno di te. Ma tu hai bisogno del tuo giornale?”. I primi risultati sono incoraggianti: i lettori si dimostrano disponibili a
costruire una “relazione speciale” con la testata offrendo, come ha scritto Charlie Beckett, “lealtà in cambio di giornalismo che porti valore aggiunto”. Così la sfida è quella di trasformare
il “lettore del “Guardian”", facendolo diventare “membro del “Guardian”".
Lo stesso direttore, Alan Rusbridger, ha definito le dieci regole del giornalismo partecipativo. E sono
regole che descrivono – ancora una volta – un mestiere coerente con le logiche di Rete e non più con quelle della carta. Lo spirito è quello di incoraggiare la partecipazione e costruire una
prospettiva nuova. Delle dieci regole, forse la più significativa è la numero due: “Il giornalismo non è più una forma inerte di comunicazione da noi a voi”.
Certo, c’è ancora moltissimo da inventare e da sperimentare. Al momento la transizione al digitale avviene
prevalentemente replicando sui diversi dispositivi le forme consuete cui ci ha abituato per decenni la carta. Ma si provano nuovi approcci ovunque: il “Wall Street Journal”, ad esempio, sta
esplorando un nuovo social network di moda (Pinterest) mettendo in vetrina citazioni significative dei propri articoli.
E il lavoro per costruire prodotti efficaci sui dispositivi mobili è ancora nella sua prima infanzia, ma è
sempre più strategico. Tutte le ricerche e tutti i dati di mercato sembrano indicare che presto, negli Stati Uniti, ma anche da noi, gli smartphone e i tablet saranno il principale strumento di
informazione per i lettori. È una previsione facile da fare: man mano che i costi diminuiscono e che l’adozione dei nuovi strumenti procede, la senescenza del vecchio approccio sarà sempre più
evidente.
Anche in Italia si sta preparando il futuro e – soprattutto tra le testate più attente – c’è molto interesse
per una trasformazione che è destinata a mostrarsi in fretta e che va studiata prima. Si osserva quanto sta accadendo oltreoceano e si pianifica quello che sarà il presente di
domani.
Ma a monte resta irrisolto il grande problema, che è quello di capire come pagare il giornalismo. Ed è un
problema che non riguarda solo i giornalisti e grandi gruppi: abbiamo bisogno, tutti, di informazione moderna e di qualità. Che è uno dei principali ingredienti della
democrazia.
da dagospia.com
Testo in http://www.vip.it/i-giornali-perdono-con-internet-ma-la-pubblicita-sul-web-e-poca-e-i-navigatori-non-sono-disposti-a-pagare/