
Franco Abruzzo è nato a Cosenza il 3 agosto 1939
Paola d’Amico
MILANO – “Non si guardava l’orologio, non eravamo impiegati del catasto. Mi piacerebbe ricominciare. Certo, non ho più lo scatto di allora, quando facevo
le scale del tribunale a due gradini alla volta…”.
Franco Abruzzo si racconta. “Sono arrivato a Milano il 3 febbraio 1962, avevo 22 anni, 150 mila lire in tasca e la mia Seicento che mi portò, sbagliando
le strade, in piazza Duomo. Alle spalle tre anni di corrispondenze da Cosenza per “Il Tempo” e “Il Giornale d’Italia” di Roma, la “Tribuna di Mezzogiorno” di Messina, “Tuttosport”, “Le
vie del mondo”, la vecchia rivista del Touring. Ma avevo capito che me ne dovevo andare su al Nord. Vivevo nel mito di Milano. Mi ero innamorato del capoluogo lombardo in seconda liceo,
studiando l’Illuminismo lombardo. La storia d’Italia l’ha sempre fatta Milano”.
Vuole fare il cronista il giovane Abruzzo. Per questo s’adatta a scrivere comunicati stampa (“Mi pagavano 60 mila lire al mese”) collaborando con la
Deutch Grammofon: “Ascoltavo Orietta Berti e scrivevo un comunicato stampa. Non capivo nulla di musica leggera, ma i testi piacevano”. Abita presso una signora piemontese in via
Fatebenefratelli 30. Frequenta il Gatto Nero il ristorante “covo” delle ragazze di un noto night di via Manzoni.

Sono gli anni della grande emigrazione dal Sud. “Se non avevi notizie di cronaca di giornata prendevi su, andavi dal simpatico portiere dei palazzoni
popolari a Cologno Monzese, in via Lombardia o in via Maroncelli a Sesto San Giovanni, da dove è passata tutta Italia, e raccoglievi storie a piene mani. Devo tutto alla cronaca”. Abruzzo
gira con un registratore superprofessionale che ha pagato (scontatissimo) 300mila lire, una fortuna, e una Pentax. “La fotografia era ed è una notizia e al Giorno se non portavi la foto
giusta uccidevi la notizia”.
Un giorno mi dicono: Franco siamo deboli a Monza, devi andare a Monza. E io ci vado. Il Giorno è in lotta feroce con Il Corriere e la sola cosa che conta
è portare notizie, vere, credibili, e non sbagliarne una. L’arma vincente è rendersi indispensabile”. E sono storie che non si possono dimenticare. “Ricordo il muratore calabrese che in un
cantiere ammazzò tre bergamaschi con un fucile caricato a pallettoni. Per capire questa vicenda tragica vado a casa del muratore, alla Barona, e ci trovo una donna con una bimba
poliomielitica. Tra le lacrime mi racconta che sono saliti fino a Milano per far curare la bimba. Ma i colleghi di lavoro con scherzi pesantissimi tormentano il marito finché un giorno gli
fanno caricare una carriola che avevano attaccato alla corrente e lui per poco non muore. Racconto il retroscena, la storia commuove e la Procura incrimina il datore di lavoro. L’omicida
finisce in seminfermità a Castiglione delle Stiviere”. E poi la storia del ferroviere di Lodi che ruba a mille lire per volta 10 milioni. Ha la figlia gravemente malata e aspetta che arrivi a
Milano un famoso neurochirurgo svedese per farla operare. Quand’è il momento, il luminare la visita e dice niente da fare. Lui restituisce tutti i soldi, quei soldi, alle ferrovie ma viene
incriminato. La storia da libro Cuore è così toccante che interviene il Vescovo. E lui, condannato a Lodi, è assolto in appello a Milano perché ha agito in stato di bisogno. Gli aveva
dedicato una pagina la mattina del processo di secondo grado.
Ed è Monza a segnare una svolta nella sua storia di cronista. “Qui c’era il quinto tribunale d’Italia”. Diventa cronista giudiziario, viene iscritto
d’ufficio al Registro dei praticanti e supera l’esame di stato. E di Palazzo in Palazzo eccolo arrivare al Palazzo di Giustizia di Milano.
Sono gli anni del terrorismo, della mafia a Milano. Il 16 maggio 1974 la Finanza arresta Liggio. “Il giorno successivo noi usciamo con due pagine sui
grandi latitanti, mi chiamano in Procura. Che hai fatto?, mi dice il procuratore capo. Micale, mostrando le foto di tutti i latitanti pubblicate sul giornale. Hai rovinato l’inchiesta. Trovo
ufficiali della finanza, dei carabinieri, della Ps. Rispondo: andate in Galleria, c’è una bella libreria, è il Poligrafico dello Stato, tutti possono acquistare 3 volumi sulla prima
Commissione antimafia. Lì c’è tutto. Che avevo fatto? Mi ero semplicemente documentato”. È bulimico e appassionato. Legge e divora e non s’accontenta mai della notizia in sé. Ed ecco il caso
Fioroni. “La banda politico-criminale di Fioroni fa sequestra e ammazza Carlo Saronio, giovane ingegnere milanese ricercatore presso il Mario Negri”. Saronio era discendente di una famiglia
di industriali farmaceutici, ex proprietari delle Industri farmaceutiche Carlo Erba. “Uno della banda confessa dove l’hanno seppellito. Andiamo, si scava, esce uno scheletro con un tampone in
bocca, nelle campagne tra Segrate e Vimodrone. Avevo studiato un po’ di medicina legale, prendo il libro del professor Franchini, ricostruisco le dieci domande, le dieci possibili domande che
la Corte d’Assise ha posto ai periti. Il giorno dopo di nuovo mi chiama la Procura. Ma cos’hai fatto? Quelle erano le domande del presidente Antonino Cusumano ai periti. E io rispondo:
forse abbiamo studiato sugli stessi libri”.
E scoppia il crac Sindona, settembre 1974. Abruzzo, che aveva trascorso l’estate studiando legge fallimentare e legge bancaria (del 1936), diventa
il “sindonologo”. Dopo una campagna sistematica di stampa, i suoi articoli convincono la Procura generale a costituirsi nel giudizio d’appello dell’insolvenza ‘nell’interesse della Nazione’.
“Seguono gli anni terribili del terrorismo. Ma al terrorismo ero arrivato preparato sul piano storico-politico. Il 29 gennaio 1979, il giorno in cui fu ucciso il pm Alessandrini, mi ritrovai
nella lista di ‘quelli da uccidere” con Tobagi e Valiani, più 32 persone tra avvocati e magistrati. Il mio nome era stato segnato anche da Corrado Alunni, catturato dalla polizia nel
settembre del ’78. Poi il successivo primo ottobre ci fu l’operazione del generale Dalla Chiesa che distrusse la colonna Alasia. La lista era stata lasciata da un confidente dei carabinieri
sotto una 500 in viale Lombardia. Quel 29 gennaio 1979 fui chiamato di sera in Procura. Mi dissero di rintracciare Tobagi e di avvertirlo. L’indomani il Procuratore capo Mauro Gresti ci
comunicò che eravamo soggetti a rischio. Cambiò la mia vita e il mio lavoro. Rientrai in redazione come caposervizio al Politico e poi ai Fatti della vita (la cronaca
nazionale).
“L’uomo del Giorno lascia Il Giorno” titolerà Prima Comunicazione quando Abruzzo passerà al Sole 24 Ore, direzione Locatelli, il 5 dicembre 1983. Otto
anni prima, quando Scalfari gli aveva offerto un posto a Repubblica, che doveva nascere nel gennaio 1976, aveva firmato il contratto e poi rinunciato. “Non me l’ero sentita di lasciare
un giornale con il quale mi identificavo”. Che l’aveva fatto crescere. Cosa deve essere un cronista? ”Passionale, Innamorato del lavoro, sempre in campana. La cronaca emoziona”. Cosa non deve
dimenticare?. “Il cronista è uno storico del presente, deve consultare le fonti, scavare nella consapevolezza che ha poco tempo. Il nemico è il tempo. Deve parlare con le fonti, con la gente,
con i testimoni”.
“Intercettai Tom Ponzi, sentito per spionaggio, perché ero lì, al piano terreno del Palazzo di giustizia davanti agli uffici della polizia giudiziaria
(carabinieri). E stavo fino alle 2 di notte davanti al carcere per aspettare gli avvocati. Sempre con l’ambizione di ricostruire le storie”.
Racconta di “Vallanzasca, quando fu rapita la figlia di un noto industriale del mondo della bellezza. Il pm era un magistrato amico, che parlava uno
stretto dialetto meridionale. Non lo capivano. Ero io l’interprete. Un giorno vedo il dossier. Ma come, gli dico, hai sul tavolo il diario della rapita e non me lo fai leggere. Ho pubblicato
per sette giorni estratti del dossier, a puntate, Il Giorno toccò a Milano punte di 55mila copie. Altri tempi.
“Mi hanno querelato i mafiosi della banda Liggio e io li denunciavo subito per calunnia, sulla presunzione megalomane che avevo scritto la verità. Tutti
archiviati. Quando uno si sente al centro del mondo, ha un alto sentire di se stesso. Era vita di grande ritmo. Era una vita bella. Ricomincerei daccapo. Anche ora. Durante il processo
Liggio, – presidente del tribunale era Salvini con Colombo e Passerini giudici a latere, Pm Giovanni Caizzi-, il vecchio capoclan mi attaccò pubblicamente. Salvini pose una domanda. Io ero in
piedi accanto allo scranno del Pm. Liggio mi guardò e puntò il dito: “Queste cose le ha scritte il segretario del pm”. Successe il finimondo, Finii in tv. Durante quel processo mi rubarono
anche l’Alfa Giulia. La mattina in aula, don Coppola, cappellano della mafia, esclamò: “Ma un cronista può girare la città a piedi?”. Gli altri sgignazzavano. Sapevano tutto. Ho seguito la
mia Giulia fino al porto di Catania, da dove fu imbarcata per Beirut. Così mi assicurò l’avvocato di uno degli imputati. Era nuovissima e scattosa come tutte le Alfa.
Due episodi, però, illuminano il volto del vecchio cronista. Nei primi mesi del 1970 è il salvataggio di 5mila alberi della curva di Lesmo dell’autodromo
di Monza. “Andò così, dice Abruzzo, in piazza Trento e Trieste a Monza incontro un assessore socialdemocratico, Penati, che mi parla degli alberi da tagliare per modificare la curva, E’
preoccupato. lo tranquillizzo e gli dico: dammi la delibera, me la cavo con 10 righe. All’indomani, Il Giorno pubblica di spalla in prima pagina un pezzone di 90 righe con un titolo su tre
colonne. Succede il finimondo. Tifosi ed ecologisti vengono quasi alle mani. Penati mi rincorre e mi tocca giustificarmi dicendo che in redazione, a Milano, non capiscono nulla e che mi hanno
costretto a scrivere quell’articolo lunghissimo. Penati la beve. La foresta di Lesmo è simile a quella del Gargano, ed è il resto di quella famosa foresta umbra (il nome “umbra” deriva
dal latino e significa cupa, ombrosa) che 30mila anni fa copriva tutta l’Italia. In redazione Mario Fossati, grande inviato di ciclismo, monzese, mi fa festa. Avevo salvato i suoi
alberi”.
Franco Abruzzo è il cronista che rivelò il passaggio delle Brigate Rosse ai sequestri di persona. Era il maggio del ‘75 con un titolo in prima pagina su
quattro colonne. Tutti increduli. Abruzzo ha buone fonti nel “collettivo” del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Verrà il 4 giugno la battaglia di Cascina Spiotta nell’alessandrino, i
carabinieri uccidono Mara Cagol, moglie di Curcio, e liberano l’industriale vinicolo Vallerino Gancia. Muore l’appuntato D’Alfonso, ferito gravemente il tenente Rocca (oggi generale
dell’Arma). Fu una battaglia violenta. Le br persero una base storica e il “comandante Mara”. “Quel colpo giornalistico – osserva oggi Abruzzo – mi mise in luce presso le br, che
evidentemente presero nota del mio nome”.
http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=11109
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